Sri Lanka. Isola della Solidarietà. Marzo 2005

Sri Lanka. Isola della Solidarietà. Marzo 2005

Mihiripenna, Sri Lanka,  5 marzo. La realtà che si confonde con il sogno, in una dimensione nuova che è nessuno dei due. Siamo arrivati da poche ore e già questo paese ci ha assalito, con la sua gente, le sue storie, la sua tragedia e la sua semplicità. Semplicità che è la dimensione del quotidiano, qui, ma anche altrove, in una qualsiasi parte del mondo dove un essere umano abbia costruito una casa ed abbia iniziato a fare dei figli. Sembra di rivedere…quello che volete!!!…uno qualsiasi dei film che vi hanno più appassionato, ed è così che abbiamo visto noi oggi questo nuovo incontro con l’isola delle spezie.

L’incontro forte casa Mihiri, con Lorenzo, nella sua dimensione sicura e protetta, ma al tempo stesso preoccupata, nella loro grande battaglia con e contro questo strano paese. Molte le sensazioni che le loro parole hanno suscitato, molte le riflessioni.

Però, oggi, prima di loro, il forte impatto con lo tsunami, che credo sia la parola più recitata dal 26 dicembre in avanti in questa terra. All’aeroporto i vari procacciatori, immancabili e come sempre incontenibili, ti chiedono: “holiday o tsunami?”. E poi ci mettono sempre “Unawatuna” che anche se completamente distrutta, si porta sempre dietro la fama di una delle 12 spiagge più belle del mondo. Ed è così che riviviamo e vediamo il disastro, ad iniziare dalla immediata periferia di Colombo, con le macerie che arrivano fino alla strada e i pezzi di muro singoli, simili a ruderi di torri medievali, resti di improbabili case rimaste in piedi.  Le prime preziose informazioni ce le dà Luca, un 19enne tedesco, che vive e lavora qui e che ha vissuto i primi terribili momenti della catastrofe. Ma la dimensione della tragedia si tocca con mano e con gli occhi subito prima di Hikkaduwa. Case sventrate, strade distrutte, binari divelti, interi fabbricati rasi al suolo e l’inizio dei camps, le tendopoli umanitarie per coloro rimasti senza casa, dalle più piccole a quelle enormi per migliaia di famiglie, che ormai da due mesi vivono lì. Ognuna con la sua bella bandierina della nazione che le ha finanziati. Intorno scorazzano bambini sempre pronti al sorriso e al saluto. Inquietante e sinistra la presenza del treno della morte, divenuto tristemente famoso, ancora lì accanto ai binari.

I bambini di Casa Mihiri. La bella casa al limitare della giungla, come diceva un rotocalco nei giorni delle tsunami “sulle colline di Galle”, ma soprattutto la nuova scuola materna e la casa famiglia per 18 bambine. Qui sono sane, felici e sorridenti, non come sono arrivate, spaventate, spaurite, malate e ferite. Lorenzo è estremamente pratico e cinico. Quasi 20 anni qui, in Sri Lanka, quasi una vita ormai dedicata a questo paese e a questa gente. Lo tsunami. Raccontano che hanno vissuto momenti difficili. Qui arrivavano tutti i soccorsi, e i responsabili non sapevano cosa fare, non parlavano la lingua e allora cercavano loro, come chi aveva bisogno di cure e di assistenza: sommersi dall’emergenza, come di solito si dice. Così sono arrivati i primi soccorsi e poi i soccorsi veri. Beni di prima necessità. E poi sono arrivati i soldi, tantissimi e dai canali più disparati, tanto che il governo ha deciso di accentrare tutto e quindi ogni rupia passa dalle mani di Colombo e torna sicuramente sul territorio molto più snella. Poi sono arrivati i soldi dei privati, dei turisti, che sono i fruitori di questa parte del paese. Con i primi denari pubblici si sono cominciati ad assegnare fondi alle famiglie rimaste senza casa e beni, si sono distribuiti pacchetti di beni: così le pentole ad esempio vengono rivendute ed hanno passato già tre o quattro mani, c’è chi ha, in magazzini appositamente costruiti con i soldi della tsunami una scorta da macchine da cucire, uno degli stati symbol di questo paese. Poi il governo ha deciso che non si potrà ricostruire entro i 100 metri dalla costa, ma molti hanno già ricostruito (specialmente gli alberghi) e chi viveva vicino al mare non vuole certo andare a vivere in anonimi condomini di 3 o 4 piani. Quindi il governo darà il contributo per la casa solo a chi la costruisce oltre i 100 metri. E quelle ormai costruite si lasciano. La miglior cosa, dice Lorenzo, è acquistare un terreno e poi privatamente senza contributi tsunami, costruire le case per chi ne ha bisogno; come hanno fatto loro in più occasioni. Tanto i poveri sono sempre poveri, tsunami o non tsunami.

Secondo Lorenzo i cingalesi sono completamente inaffidabili (in quindici anni – dice- non ne ho conosciuto uno, specie quelli del sud, meglio il nord ma meglio soprattutto i tamil o i musulmani). Già le loro bambine. Accolgono nella loro casa famiglia bambine che hanno subito abusi sessuali e maltrattamenti. Vivono lì, sicuramente più felici, ma senza una vera famiglia, in questa famiglia allargata con tante sorelle e con una vita in comune fino alla maggiore età. Le adozioni internazionali sono state sospese per le province del sud. Quelle nazionali no, ma ci sono moltissime domande e pochi bambini. Ma come, diciamo noi, è impossibile!. E tutti i bambini negli orfanotrofi!  E’ vero, ma molti di loro conservano ancora un genitore e finché questo va a trovarli una volta all’anno non sono adottabili. Il problema sta proprio nella dimensione culturale di questa società, di un paese oggetto di politiche coloniali, e di comportamenti radicati proprio negli stili di vita. In pratica il ruolo del maschio e quello subordinato della femmina, i maltrattamenti verso i minori con relativi abusi sessuali, molto diffusi tra la popolazione, il tasso di alcolismo elevatissimo tra i maschi (il 65%), il grado di corruzione dei politici al potere. Anche i miliardi di euro piovuti dopo l’acqua assassina dello tsunami sono stati tutti accentrati dal governo ed esiste molta preoccupazione tra le associazioni umanitarie più piccole che vi siano appropriazioni indebite e i soldi non vadano proprio a chi ne ha davvero bisogno.

Qui, nel “nostro” villaggio si sono salvati tutti; anche i turisti inglesi, danesi, israeliani che erano ospiti nelle tre cabanas sul mare si sono salvati, in quel momento hanno perso tutto, erano feriti pieni di sangue dovuto alle escoriazioni, ma hanno salvato la vita. Alcune case del villaggio sono state distrutte, come quella di Prianta. I bambini di Prianta si trovavano sul mare in quel momento e sono stati trascinati, insieme a tutto il resto per 400 – 500 metri verso l’interno, si sono miracolosamente salvati, ma non vogliono vivere più vicino al mare. Non lo vogliono più nemmeno vedere il loro mare. Così, come molte altre famiglie “normali” Prianta, se riuscirà, dovrà cambiare vita.

Mihiripenna 6 marzo. Strano posto, sembra un sogno, ed anche ora c’è una strana atmosfera: sulla spiaggia non c’è nessuno a differenza delle domeniche in cui vedevano tutte le famiglia locali, e anche molti turisti: ora pochissimi turisti e nessun locale. Qui l’incredibile tranquillità della capanna. Lo straordinario rumore del mare, il caldo avvolgente della notte tropicale. Come se le tendopoli della disperazione fossero solo il frutto della nostra fantasia, come se realmente tutte le case distrutte, con tutto quello che lo tsunami ha fatto,  non esistessero. Qui niente di tutto ciò sembra passato, la capanna è ancora qui, nonostante la sua distruzione, tutto è uguale anche se profondamente diverso: nel mezzo ci sono le migliaia di morti e disperazione che l’onda assassina ha portato con se. Anche oggi giornata intensa. Siamo andati ad Elpitya, a casa di Harschi. Gli strani rapporti famigliari di questa gente. E così, piano, piano si scopre che Prianta ha tre fratelli. Deepika, il babbo di Harschi, e un altro più piccolo. Abbiamo ricevuto il grande regalo della loro ospitalità, convivendo il loro pranzo. Strana notte anche oggi, con la preghiera buddista che risuona nella tranquillità della notte intera, per ricordare le vittime dello tsunami. Stamani abbiamo portato le medicine all’ospedale da campo di Unawatuna, dove ci sono gli italiani, tre medici, due donne e un uomo, molto cordiali. Prianta ci racconta che la gente del posto si fida molto dei medici italiani che sono ritenuti i più capaci e disponibili.  L’incontro con Harschi è stato molto intenso e lei si aspettava di vedere i suoi amichetti italiani. La mamma molto stanca e infinitamente disponibile, ha cucinato per noi, ed ha fatto come di solito si fa in questa cultura, la serva di tutti. A malincuore abbiamo salutato Harschi e abbiamo anche deciso di aiutare la famiglia per il suo corso di inglese, circa 2.000 rupie al mese. Il posto dove vivono è molto bello. Tanta agricoltura, riso, tè e cannella. Siamo lontani dalla tragedia dello tsunami, ma anche qui conoscono la parola e la ripetono spesso. Lontani dalla tragedia ma immersi nella semplicità e nella povertà della gente che con molti sacrifici a stento riesce a far studiare i propri figli, ma solo per le scuola di base. Il profumo della cannella invade i sensi ogni cosa che sta intorno. Ti entra nelle narici e ti accompagna per qualche chilometro, ti avvolge come un caldo abbraccio materno. Quasi ad invitarti ad entrare nel vero mondo di quest’isola. Qui solo la gente sembra diversa e certe volte ostile. Ma sarà solo una sensazione nostra e o forse solo pura prevenzione. Penso a quello che raccontava una donna italiana che abbiamo conosciuto, che lì, ad Unawatuna, le due donne che la ospitavano gratis, pretesero di essere chiamate amma e non vollero un centesimo per i giorni che lei aveva vissuto presso di loro. Ma erano donne. Qui forse è vero il problema sono i maschi, è l’uomo con lo suo bagaglio di contraddizioni e di delusioni, di frustrazioni e di smania di essere sempre all’altezza di un gallismo fuori luogo e fuori tempo.

Harschi vive proprio nella giungla. Nella sua terra vi sono due case, una dove vivono i nonni e una, che stanno risistemando, dove andrà a vivere Lei con la sua famiglia. Ranga, suo fratello di 20 anni, mostra soddisfatto i lavori che stanno facendo e la bella cucina in piastrelle bianche che sta venendo molto diversa da quella vecchia di cui ha conservato le foto. Ha documentato tutti i passaggi dei lavori, orgoglioso della sua nuova casa.  La casa si affaccia su di un bel giardino ricco di essenze tropicali e di alberi di mango e di papaia. Il tutto circondato da una piccola piantagione di tè. Più avanti ci si affaccia su un tratto pianeggiante dove coltivano il riso, brown rice, come dicono loro. Qui piove molto e loro si sono abituati a vivere per gran parte dell’anno avvolti dalla coltre di umidità che sale dai campi di riso fino alle collinette del tè. Ranga non ha potuto proseguire gli studi perché l’università, come dice lui for me like a dream, costa troppo e non se la può permettere. Deve trovare un lavoro, qualsiasi, però gli piace lavorare per Deepika, nelle capanne con i turisti, ma è un lavoro che dura solo cinque sei mesi, poi arriva il monsone e i turisti vanno da un’altra parte. Poi quest’anno la stagione è finita appena iniziata con l’arrivo inaspettato e tragico dello tsunami. Ranga ha salvato i due bambini inglesi che dormivano nella nostra capanna portandoli nella casa dove vive sua zia.

Mihiripenna, 10 marzo. E’ arrivata, improvvisamente, la prima volta, potandosi dietro tutto ciò che ha trovato. Alle 9.00 di quel 26 dicembre il mare era incredibilmente tranquillo, come può essere l’oceano indiano e c’era pochissimo vento. I big-party di Natale avevano stancato quasi tutta la gente, turisti e locali. Verso le 9.15 è arrivata l’acqua, quasi dolcemente. Portando via tavoli, sedie, letti, bungalows, mobili, donne, uomini e bambini. I bambini inglesi che dormivano nella nostra capanna sono arrivati nel soggiorno della casa di Deepika, a quasi 600 metri di distanza, il padre è rimasto incastrato tra le assi della capanna squarciandosi il polpaccio. Appena l’acqua si è ritirata, circa 1 chilometro, scoprendo per la prima volta il fondo del mare tropicale, ha iniziato a camminare sopra la barriera corallina e poi anche oltre, insanguinato e zoppicante, piangendo disperato alla ricerca dei suoi bambini. Amal è corso salvandolo dalla nuova onda che stava arrivato, dopo nemmeno 5 minuti, urlandogli che i bambini erano salvi nella casa oltre la ferrovia. La seconda onda è stata più violenta ed ha finito di distruggere tutto, l’acqua è rimasta per l’intera giornata, innalzando il livello del mare di quasi tre metri…

La signora parla correntemente un buon inglese, un bel vestito rosa, ripulito, ma con i segni della sofferenza, la bambina con due grandi ciuffi che le raccolgono i capelli nerissimi, fermati da un nastro azzurro, con addosso una camicina a righe celesti e un bel vestitino blu, calze bianche e scarpe nere lucide. Sono lì, con dignità, a passeggiare vicino alle macerie dell’inferno di Peralya, poco prima di Hikkaduwa, di fronte alla sinistra presenza del treno della morte, con i suoi tre vagoni superstiti (erano dodici in tutto) contorti e schiacciati dall’acqua dello tsunami, rimasti sui binari. Intorno blocchi di cemento, pezzi di binario piegati e strizzati come morbida gomma, cumuli di macerie e spettrali resti di vestiti, scarpe, di ogni cosa che la gente possedeva nelle case, almeno fino a quella mattina del 26 dicembre. La nonna tiene per mano la bambina, quattro anni, che sorride ad ogni mia carezza, e inizia a parlare della sua famiglia e dei suoi morti. Venivamo da Elpitya, una vasta area agricola nell’interno del distretto di Galle, dove una delle scuole ha accolto molti dei bambini che vivevano sulla costa e ci siamo fermati qui con Ranga e Prianta per parlare con i responsabili americani del campo di Peralya, Oscar e Bruce, che accoglie quasi 4.000 famiglie. Ogni tanto, vicino al treno, si formano piccoli gruppetti di gente che iniziano a discutere, a volte anche animatamente, della loro condizione, delle loro richieste e delle loro speranze. Molti hanno i vestiti logori e sporchi, molti bambini giocano sulle macerie di fango sabbia piene di rifiuti di ogni genere, seminudi, ma l’anziana signora e la bambina, si sono preparate meglio che potevano, per presentarsi dignitosamente, ai turisti che si fermano in uno dei punti più significativi dello “tsunami tour”. Tedeschi e americani, si fermano qui accompagnati dagli autisti cingalesi, e mettono in posa bambini sorridenti e donne vedove per una foto di fronte al treno dove sono morte quasi 1.000 persone, la maggior parte bambini. Molti profughi non parlano inglese, ma l’anziana signora ha una buona padronanza della lingua e fra le cose che diligentemente ha sistemato nella sua lucida e consunta borsetta nera porta le foto della figlia e dello sposo nel giorno del loro matrimonio, qualche settimana prima dell’onda che ha sommerso uomini e cose, dei suoi tre nipotini, di suo marito: sono morti tutti in quel treno, e lei con la piccola nipotina rimasta, è qui a vagare ed a chiedere nella speranza di vedere  un po’ di luce, prima dell’arrivo del monsone, che sicuramente porterà altra sofferenza e morti nei campi profughi. Questa gente chiede una casa. Sono passati quasi due mesi e mezzo, ma per ora debbono accontentarsi delle tende (quelle della protezione civile italiana sono le migliori) e i più fortunati di piccole casupole di legno. Si lamentano perché hanno ricevuto per ora solo promesse dal governo e dicono che gli aiuti, un po’ di soldi li ricevono solo dai turisti che vengono a fare le foto al treno. La valanga di soldi arrivata per gli aiuti e la ricostruzione è, per ora, ferma a Colombo, il governo ha deciso di accentrare sotto il suo controllo le operazioni della ricostruzione e, considerati i ritmi di questo paese e dell’oriente, forse ci vorrà ancora tempo. A Colombo vogliono controllare anche il volume di aiuti che arriverà nella zona settentrionale e in quella orientale dell’isola, dove vivono i tamil. Infatti qui la situazione, da quello che ci dicono le poche NGO che sono arrivate lì è ancora più drammatica, cercheranno in questo modo di piegare la resistenza tamil insieme alle rivendicazioni separatisti delle tigri, difficilmente, perché sembra ormai inevitabile la creazione di una zona autonoma: a farne le spese è però la gente più povera e che in questo momento ha bisogno di aiuto. Invece i tempi della ricostruzione degli alberghi e dei grandi complessi, delle strutture turistiche dove in qualche modo c’è lo zampino degli occidentali, sono stati rapidissimi, è quasi tutti ricostruito e pronto. Qui il business garantisce una buona capacità di spesa e altri soldi sono arrivati direttamente dai turisti, dagli amici, a volte anche con l’inganno, come nel caso di una raccolta promossa da un hotel per la ricostruzione di una scuola del villaggio, dove la scuola non esiste. Hanno quasi ricostruito tutto fregandosi della legge che il governo ha applicato da subito vietando le costruzioni entro i 100 metri dalla costa. Ma per ora questo vale solo per la famiglie dei pescatori che sono sopravvissuti e che dovranno, se avranno di nuovo la loro casa, spostarsi nell’interno, cambiando abitudini e modi di vita. Ma per ora, a differenza dei turisti che, come sperano molti, inizieranno di nuovo ad arrivare dalla prossima stagione, dovranno ancora aspettare. Forse non aspetteranno tanto tempo i superstiti dell’inferno di Unawatuna (quasi 900 morti), la necessità di apparire e la voglia di aiutare ha spinto il governo giapponese e francese alla realizzazione di un progetto immediato per la costruzione di 400 case, dove sembra, dalle informazioni raccolte sia presente anche il comune di Lucca. Un progetto assurdo che prevede la costruzione di flat building, palazzoni condominiali, che per questa gente si trasformeranno in formi crematori, una struttura completamente avulsa dalla storia abitativa e dagli usi di questa gente.

Mentre la gente si raduna intorno a noi si capisce che qui hanno bisogno, oltre che di essere aiutati,  di parlare, di raccontare, per scacciare la paura e il terrore rimastigli dentro che ha distrutto tutto in pochi secondi. Lasciamo lì, a Peralya, i bambini che giocano e sorridono, le donne che raccontano e chiedono aiuto, piene di fiducia e speranza, e l’anziana signora che ci saluta dicendo fate qualcosa se potete perché noi abbiamo veramente bisogno di aiuto.

Mihiripenna, 11 marzo. L’hanno rivoltato come un calzino, in senso positivo, con la decisione che distingue il popolo americano. Erano grandi stanzoni bui, quelli dell’orfanatrofio di Kitulampitja, che visitammo a dicembre, prima del maremoto. Grande stanze sporche, senza bagni decenti e senza docce, ma con molti bambini, anche piccolissimi, di pochi giorni, che cercavano sempre di incrociare il nostro sguardo con i loro coinvolgenti grandi sorrisi. Oggi le stanze si sono riempite di luce e di colori, decorate con disegni alle pareti, ripulite a nuovo, nuovi bagni funzionanti con le piccole docce per i piccoli ospiti. La Helix Foundation, una NGO statunitense, ha ottenuto uno speciale permesso dal governo di Colombo, starà qui 10 anni a controllare che tutto funzioni nelle due strutture di Kitulampitja: la Remain Boys Home e la Senehasa Home Girl. Evidentemente, insieme allo tsunami, hanno giocato anche forti appoggi politici a favore di Daniel e Michelle Curry, i due manager della Helix. Daniel è davvero il prototipo americano del militare buono, ed infatti ha alle spalle molte esperienze, Afganistan, Ruanda, Nicaragua, Botswana e Indonesia, divise tra impegno militare e missioni umanitarie. Ci mostra orgoglioso le modifiche strutturali che hanno apportato in pochissimi giorni all’orfanatrofio, ci accompagna soddisfatto del lavoro compiuto e con lui si può entrare dovunque, in qualsiasi stanza e luogo di quel posto prima vietato e oscuro. La direttrice (Provincial Commissioner) Amarasiri, responsabile del governativo Probation Child and Care Service di tutte le province del sud, unica detentrice fino a poco tempo fa del potere sul personale e sui bambini, si è dovuta piegare al sintetico comando del governo di Colombo, carta bianca alla Helix, e così è stato. Michelle, di orgini messicane, è l’esatto contrario di Daniel, di poche parole e molto riflessiva, composta e dolce nei modi e nelle sguardo, molto giovane. Grazie alla presenza di Lucilla, che già conosceva gli “americani”, spieghiamo a Daniel chi siamo e cosa facciamo, anche se ora, sconvolti dalle case piegate dalle onde e dagli sguardi dei bambini, non lo sappiamo bene nemmeno noi. Appena Daniel sente parlare di volontà di collaborare e cooperation, si alza in piedi dice ok! e ci stringe la mano; poi ci presenta uno ad uno i suoi collaboratori, tutti volontari: lo staff medico della repubblica ceca, gli ingegneri belgi, l’architetto tedesco, e molti americani. In serata fissiamo un appuntamento a Galle con Michelle e appena arriviamo ci consegna tutti i documenti necessari alla nostra cooperation. Il lavoro che si propongono di fare con noi è finalizzato alla ristrutturazione della Boys Remain Home. La visitiamo nel pomeriggio, è un piccolo fabbricato, stile convento con il chiosco interno, situato sulla piccola collinetta sopra la struttura centrale. Appena ci avviciniamo si avverte che qui è tutta un’altra storia, ancora più tragica e drammatica dei bambini senza famiglia.  Le finestre sono incorniciate con delle grate in ferro e ogni piccola apertura e chiusa da sbarre. E’ una vera e propria prigione, un detention center per ragazzi dai 5 ai 18 anni. Al momento ci sono circa 40 bambini. Ci affanniamo a chiedere spiegazioni su quali crimini possano aver commesso bambini di 5 anni. Ci viene risposto qualcosa, continuiamo a non comprendere, ma pian piano quella che rifiutavamo come orrida realtà si impone pesante e insopportabile di fronte ai nostri occhi. Il centro serve per detenzione temporanea per ragazzi in attesa di giudizio, e qui vengono trattenuti per 14 giorni. Ma succede, e questa è la regola, che i ragazzi rimangono qui per molti mesi, spesso per molti anni, dimenticati da tutti e da tutto. I bambini qui detenuti, come dice testualmente la relazione della Helix Foundation hanno commesso piccoli furti e altri reati, insieme a questa categoria sono detenuti ragazzi that have been phisically abused by their parents, che sono stati abusati fisicamente dai genitori e poi abbandonati, omosessuali e che hanno in alcuni casi altri problemi fisici e psicologici, qui sono anche alloggiati, sempre temporaneamente in attesa di una sistemazione definitiva, anche bambini di famiglie povere che non possono provvedere al loro sostentamento e in ultimo anche bambini che hanno perso i loro genitori nella Tsunami. E’ questa la situazione che hanno trovato gli americani. Il personale cingalese impiegato nella grossa struttura ha subito capito che avrebbe perso privilegi e potere con l’arrivo di Daniel e Michelle, potere fatto di furti sui contributi versati e sulle cose che dai privati all’orfanatrofio, di vessazioni sui bambini; così hanno iniziato ad  accusare tutto lo staff della Helix di abusare sessualmente dei bambini; tempestivamente Daniel ha fatto installare un circuito di telecamere per la sorveglianza, che hanno regolarmente documentato le violenze e i furti del personale locale qui impiegato. Da quel momento sono cessate le calunnie e le accuse. Se riusciremo insieme a loro potremo, costruendo nuovi alloggi, separare i ragazzi qui relegati perché hanno commesso reati, dagli altri, quelli poveri, rimasti orfani dopo il maremoto, senza genitori, malati e violentati. Nel progetto che propone la Helix ci sono anche le azioni per garantire la necessaria assistenza psicologica ai bambini, l’istruzione e forse una speranza vera per il loro futuro.

lunedì 14 marzo 2005. Nella babele di immagini che scorrono davanti agli occhi, nel turbinio delle sensazioni che sono esplose nel nostro cuore, restano ora i ricordi di un contatto con la terra e la gente piegata e devastata dallo tsunami. Resta, come dire, la “complicanza” di una realtà articolata, ramificata in mille rivoli e multiforme, che a stento cerchiamo di comprendere e analizzare per poter aiutare chi ha davvero bisogno di  aiuto, prima, durante e dopo lo tsunami. Abbiamo conosciuto molte persone di diversa età ed esperienza, provenienti da diversi paesi, che hanno scelto di vivere e lavorare nello Sri Lanka. Abbiamo visto molta gente sbattutta dalle onde dei quel 26 dicembre, che ha perso i propri affetti e la propria casa. Abbiamo visto i villaggi che si trovano a pochi chilometri dalla costa dove uomini, donne e bambini vivono in estrema povertà, indipendentemente dallo tsunami. Abbiamo visto i volti dei pescatori, segnati dal sale dell’oceano, chiedere con speranza di poter tornare a lavorare nel loro mare. E infine abbiamo visto i bambini, quelli che vivono senza affetti e senza genitori, e quelli meno fortunati che vivono relegati dietro le sbarre con l’unica colpa di essere orfani. Ma soprattutto abbiamo toccato con mano le contraddizioni di un paese sommerso dalla montagna di denaro degli aiuti umanitari. Qui donne e bambini vivono duramente ai margini della società. Il 65% degli uomini è alcolizzato e ne fanno le spese proprio loro, picchiati, violentati e abbandonati. Lo sfruttamento si completa quando, all’abbandono, segue la triste sorte della solitudine per le donne e si aprono per i bambini le porte delle Remain Home. Le donne vengono rifiutate dalla società, non trovano più occupazione e sono costrette ai lavori più umili. I bambini vengono chiusi in queste assurde prigioni, dove vengono sfruttati e spesso violentati. Molto spesso gli aiuti che arrivano in soldi e materiali, scompaiono, e vengono spartiti dal personale che lavora in queste strutture. Così è importante controllare ogni rupia che si dona in modo che giunga davvero a chi ne ha bisogno, certo non è facile, ma si deve almeno provare.

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