Quello che sognavamo. 15 novembre 2002

Quello che sognavamo. 15 novembre 2002

Quello che sognavamo era diverso, quello per cui ci siamo battuti e in cui abbiamo creduto era un territorio governato con il buonsenso, con capacità e con la consapevolezza dei propri limiti e delle proprie ricchezze, quello in cui speriamo e, ancora per cui a volte oggi, lottiamo,  non è questo.

Ritornano a mente le parole della compianta amica e maestra Gin Racheli, riferite alle isole, a queste isole e alla loro incredibile condizione di piccoli mondi sospesi tra mare e cielo; un modo di gestire e vivere l’isola molto più intelligente di quello che stiamo utilizzando oggi:  “… ascoltare d’ogni isola la natura, il popolo e le sue tradizioni; andarne a scovare l’arte, le memorie, le vicende nei secoli; lasciar fluire il racconto delle antiche pietre, dei vicoli, delle scalette .. studiare nei segni appena leggibili sulle pendici dei monti le trame di una preziosa agricoltura che consentì la vita sull’isola …”.

Queste parole e questi pensieri, per tanti anni e ancora oggi, per noi hanno rappresentato e rappresentano un riferimento, una sorta di guida nel buio della gestione del territorio fatta di improvvisazione, approssimazione ma soprattutto condizionata dagli interessi forti del mattone e del cemento. Ma ancora oggi, come Gin e come altri, non sappiamo scommettere sul futuro delle nostre isole.

Quello che diceva un altro grande interprete del pensiero ambientalista, Antonio Cederna, a proposito del nostro paese può essere fedelmente applicato a queste isole “ … negli ultimi trenta anni abbiamo assistito al rifiuto costante o al costante fallimento di ogni tentativo di pianificazione urbanistica, al culto esclusivo del lotto edificabile, all’indiscriminata depredazione del territorio considerato anziché patrimonio collettivo, terra di nessuno: ovvero terra di conquista per le truppe di assalto della speculazione edilizia, grazie all’inconscienza, al cinismo, all’avidità  delle forze politiche al potere , senza riscontro nella storia moderna di nessun altro paese… nella maggioranza dei politici al potere si riscontra (in generale), prima ancora di ogni comprovata malizia, una vera e propria forma di imbecillità. Uomini di scarsa, lacunosa o inesistente cultura, essi sono incapaci di concepire qualsiasi programma che non sia la semplice sommatoria delle più disparate e contrastanti iniziative, senza distinguere le utili dalle rovinose… all’insipienza politica fa riscontro l’analfabetismo di gran parte degli amministratori locali che nei loro piani, per pressioni campanilistiche e elettorali tendono a moltiplicare per cinque o per cinquanta le capacità abitative dei loro comuni …”

Da qui due approfondimenti su due questioni, una di carattere generale, legata alle ultime vicende del nostro territorio e una particolare, specifica sulla nostra isola.

Piove, è piovuto e forse pioverà sempre di più rispetto al passato. Un territorio che ha bisogno di cura e attenzione particolare, abbandonato a se stesso dopo il millenario utilizzo agricolo ed industriale, violentato dalla progressiva urbanizzazione a partire dagli anni ’60: si costruiscono sempre più case, cementificando sempre più la costa e i corsi d’acqua.

Ma dobbiamo sicuramente abituarci ad un progressivo cambiamento del clima, e dobbiamo sperare che il buon  senso prevalga a livello internazionale prima di superare il punto di non ritorno. In sostanza dobbiamo sperare che i trattati internazionali che concernono le emissioni nell’atmosfera per il controllo del cambiamento climatico, vengano definitivamente adottati e rispettati da tutti gli stati e specialmente da quelli più sviluppati, primi tra tutti gli USA.

Nel rapporto annuale del Worldwatch Institute sullo stato di salute del pianeta  (State of the world – Stato del pianeta e sostenibilità. Rapporto annuale; Worldwatch Institute a cura di Lester Brown) del 1989 si individuavano gli anni ’90 come il “decennio di svolta” per le questioni climatiche e ambientali della Terra: la svolta non c’è stata il mondo ha continuato ad emettere nell’atmosfera quantitativi sempre maggiori di anidride carbonica e le questioni ambientali non sono per niente state affrontate seriamente, nonostante i vertici internazionali e vari summit ai quali abbiamo assistito. Eppure i dati sono ultraconosciuti dagli addetti ai lavori e cominciano ad essere tristemente noti anche alla stragrande maggioranza dei cittadini della Terra; i 5 anni più caldi del XX secolo sono stati gli anni 1980, 1981, 1983, 1987, 1988 e i primi mesi del 1988 sono stati i più caldi in assoluto della storia.  Dal 1969 all’86 lo strato di ozono (che ci protegge dalla radiazioni solari) è diminuito dall’1,7al 3% in una zona pari per estensione all’Europa e USA messi insieme. Nel corso degli ultimi anni, ogni anno sono stati distrutti 8 milioni di ettari di foresta equatoriale, pari alla superficie dell’Austria. Questo per avere un’idea, sommaria, degli effetti legati all’azione incosciente dell’uomo sul pianeta. A ciò sono legati, ovviamente gli interessi economici forti ai quali gli stati e i governi non sanno dare risposte precise, se non quella di assecondarli nelle loro necessità: dagli interessi delle multinazionali del petrolio e quelle delle armi. Tali comportamenti influiscono pesantemente sugli squilibri tra stato e stato e tra i cittadini del mondo la cui sorte è unicamente legata alla fortuna di nascere o meno in un paese occidentale.

Nel 1900 la popolazione del pianeta era di 1,6 miliardi di persone, nel 1999 siamo arrivati a circa 6 miliardi, di  cui 800 milioni malnutriti,  1,2 miliardi senza acqua,  1,6 miliardi analfabeti e 2 miliardi senza corrente elettrica. Un bambino del nord del mondo consuma risorse pari a 30-50 bambini del sud.

Il  20 % della popolazione con il reddito più alto effettua l’86 % dei consumi totali della popolazione mondiale, il 20% più povero ne effettua l’ l1,3%. La ricchezza globale delle 225 persone più ricche del pianeta, pari a circa 1.000 miliardi di dollari rappresenta il reddito annuale del 47% più povero della popolazione costituito da 2,5 miliardi di persone.

Queste cifre, per avere un’idea degli enormi differenze tra i cittadini del pianeta e sugli effetti che tali sperequazioni hanno sulla società mondiale.

Torniamo brevemente ancora sui consumi e sul clima. L’uso globale di energia è aumentato del 70% dal 1971: le temperature più alte significano una maggiore energia impiegata al sistema climatico terrestre, questa maggiore energia impiegata si traduce in un aumento dei fenomeni estremi (tempeste, inondazioni, periodi prolungati di piogge devastanti, periodi di caldo e di siccità), tutto questo in tutte le zone del pianeta, senza che esista una regola fissa: ci si potrà trovare di fronte a lunghi periodi di piaggia e di caldo in aree dove questi fenomeni sono stati fino a poco tempo fa insoliti o pressoché sconosciuti; ma non quello che sta già succedendo oggi ?

Per evitare che questa divenga la regola, secondo gli scienziati, sarebbe necessario ridurre le emissioni di anidride carbonica, responsabili principali delle modificazioni climatiche,  del 60-80%; il Protocollo di Kyoto, siglato nel 1997 compie un piccolo passo in questa direzione (riduzione del 5,2%), peccato che sia stato praticamente disatteso dalla maggioranza degli stati industrializzati. I risultati dei vertici sullo stato di salute delle Terra (a Rio de Janeiro 1992, e il recentissimo a Johannesburg tenutosi un mese fa) dimostrano che lo sviluppo sostenibile è stato e rimane un bel sogno ancora da realizzare: i governi dei paesi che contano, non hanno mai attuato politiche concrete per dare spazio a una riconversione ecologica del nostro modo di vivere.

Tra tutti i pianeti del sistema solare, Venere sembra quello, almeno dal punto di vista geologico, simile alla terra. Gli studi più recenti lo fanno corrispondere più correttamente allo stato giovanile della terra (ca. 3 mld di anni fa), anche se potrebbe meglio rappresentare lo stato futuro della terra. Infatti l’altissima temperatura che vi si incontra (circa 500° c.; una pressione 90 volte superiore a quella terrestre, nubi roventi che si spostano a oltre 400 km/h e un nevischio sulfureo rendono apocalittico l’ambiente venusiano) è dovuta in gran parte all’effetto serra prodotto dal diossido di carbonio che, essendo trasparente alla luce solare ma opaco alle radiazioni infrarosse, non lascia sfuggire il calore riemesso dalle rocce. Da circa 100 anni l’anidride carbonica presente nell’atmosfera terrestre è in costante aumento sia per l’enorme consumo di combustibili fossili, sia per la continua distruzione delle foreste e per le piogge acide. L’effetto sera si innesca quando la percentuale di carbonio presente nell’atmosfera è tra le 800 e le 1000 parti per milione; sulla terra dal 1958 al 1988 siamo passati da 315 a 352 ppm le più alte concentrazioni mai verificatesi sul pianeta nel corso degli ultimi 160.000 anni. Oggi siamo a circa 370 parti per milione e si riscontra ogni anno un costante aumento.

“Se l’impennata verso l’alto della temperatura, iniziata nel 1970, continuerà di questo passo, gli anni ‘90, saranno caratterizzati da siccità, ondate di caldo e altre stranezze meteorologiche, al punto che non ci sarà bisogno di essere degli scienziati per rendersi conto che il clima sta cambiando”. Questo si scriveva nel 1989 (State of the world – Stato del pianeta e sostenibilità. Rapporto annuale; Worldwatch Institute a cura di Lester Brown).

Una riflessione sullo stato attuale, un’istantanea sulla nostra condizione di esseri umani, sullo stato di salute del pianeta, sulle nostre città, sulla nostra natura, sulla storia dell’uomo e sul suo modo di utilizzare le risorse naturali, sul suo modo di vivere insieme agli altri uomini, sul suo modo di combattersi, di farsi le guerre, di seminare  terrore e morte. Forse siamo davvero ad un punto di svolta.

Le forme di aggregazione del movimento antiglobalizzazione stanno dimostrando che una grande massa di uomini e donne, mettendosi in  discussione, afferma che esiste un modo alternativo di vivere tra gli esseri umani e in rapporto al nostro pianeta, afferma che non è più possibile vivere in una società che presenta ingiustizie e squilibri drammatici. Dobbiamo iniziare a realizzare i sogni. Nel piccolo, nel nostro piccolo, e nel grande su vasta scala. Quelle idee sullo sviluppo sostenibile debbono finalmente trovare la loro attuazione pratica. Pensare che nel 1970, quando per la prima volta fu coniata la sua definizione, già, con chiarezza si indicavano quelle problematiche strutturali che negli anni successivi sarebbero esplose: lo sviluppo sostenibile consiste nel soddisfare i bisogni del presente senza compromettere le capacità delle generazioni future di soddisfare i propri; in questo quadro ai bisogni essenziali dei poveri della terra va data assoluta priorità nelle scelte politiche ed è indispensabile il riconoscimento dei limiti imposti dalla capacità ambientale alla tecnologia e all’organizzazione sociale al fine di soddisfare esigenze presenti e future. E tale definizione, elaborata dalla Commissione ONU su Ambiente e Sviluppo (Il futuro di noi tutti, Commissione Brundtland, Stoccolma 1972) anticipa i contenuti più importanti del movimento no global.

E’ una visione illuminata e progressista che individua nella globalizzazione l’effetto perverso di una società basata unicamente sugli interessi economici, dove questi sono sempre stati, e sono a tutt’oggi  i valori principali di riferimento dei governi e delle loro politiche, da quelle ambientali  a quelle sociali, per non parlare di quelle legate al terzo mondo. Oggi questa visione progressista, nella quali le forze politiche della sinistra internazionale si riconoscono deve essere concretamente attuata. Nel piccolo e nel grande: sono indispensabili azioni su tutti e due i livelli.

Subito, concretamente nel piccolo: già dalle prossime amministrative a Portoferraio, la sinistra si troverà ad un banco di prova importantissimo. Dopo l’esperienza dei girotondi e degli appelli, dopo l’esperienza politica di un governo della destra, come è vissuta la sinistra dai cittadini, quali sono i desiderata di coloro che si riconoscono nell’idea progressista, come la vogliono i cittadini la coalizione antagonista a questa destra: con i soliti giochi di potere alla ricerca delle poltrone, con i soliti “faccioni” dei professionisti della politica stile molte chiacchere e poca sostanza oppure persone con le idee vere, sullo sviluppo sostenibile, per una equilibrata gestione del territorio, per una politica sociale imperniata sulla qualità della vita, con la volontà e la forza per attuarle concretamente?

Intanto, dopo l’illusione che il Parco potesse iniziare a indirizzare i nuovi strumenti urbanistici verso un recupero del patrimonio edilizio piuttosto che verso nuove volumetrie, abbiamo anche noi avuto la nostra piccola catastrofe naturale, la nostra alluvione. Come si è risposto a questo evento da parte delle pubbliche amministrazioni? In termini metaforici ancora con il cemento. Qualcuno, con grandi responsabilità di governo ha detto che “non piove dalle case ma sulle case”, insigni geologi ci dicono che sono stati cementificati i fossi e che non si deve costruire nelle aree umide, insigni ambientalisti, propendono per l’opzione zero, e quindi neanche più un mattone deve essere posto, e poi gli appelli che capitano a fagiolo, sos elba, il coraggioso manifesto del settimanale Lisola. Ma l’impressione è che tutti salgano sul carro dell’ovvietà, delle cose scontate, delle quali, giustamente si sono riappropriati i manifesti e gli appelli, ed anche quelli che non vorrebbero sono costretti ad ammettere che sono cose buone e giuste. Ma comunque si va avanti con il cemento, con piani strutturali inadeguati e sproporzionati, ma soprattutto con una cultura urbanistica vecchia e superata.

Sarebbe opportuno, al punto dove siamo arrivati nel quadro della gestione del territorio (e quindi della vita complessiva dell’Arcipelago nei suoi diversi aspetti da quello economico a quello sociale) che alle parole seguano i fatti. Quando noi parlavamo di piste ciclabili, di raccolta differenziata, di gestione integrata del ciclo delle acque, di protezione dell’ambiente doveva ancora nascere il parco, doveva ancora nascere una vera coscienza ecologica.

Così ci schieravamo contro quei progetti che impoverivano il territorio: contro la palestra o il porto-canale a Pomonte, contro il porto turistico a Mola e tutti quelli che ogni comune voleva nel suo territorio (da Galenzana alle Prade), contro l’urbanizzazione della duna a Lacona e contro tanti altri possibili eventi di tal genere.

Incontravamo per strada alcuni compagni, ma sostanzialmente eravamo soli in mezzo ai pirati a navigare e qualche volta a naufragare; ancora le potenti associazioni ambientaliste nazionali non esistevano (solo la mitica Elbaviva, insieme a Italia Nostra dalla fine degli anni 80 al 90, poi si sono affacciati nuovi soggetti, portatori di idee e di proposte la cui bontà è ancora tutta da dimostrare; un esempio sulla questione Parco Nazionale; dal loro ruolo avuto nel momento dell’istituzione del Parco a quello avuto nel momento delle nomine: ancora oggi mi chiedo perché nessuno di essi ha preso una posizione decisa e precisa sulla nuova nomina del presidente del Parco Nazionale) trovavamo solo pirati, squali e politici scaltri poi divenuti ambientalisti: alle parole, oggi, seguano i fatti. 

Questi tempi recenti hanno rappresentato e rappresentano la stagione dei girotondi, degli appelli, dei manifesti. Manifesti, comitati, appelli, adesioni. E’ una nostra vittoria. Nessuno lo dice, ma è così. Forse troppo tardi. O forse troppo presto abbiamo immaginato e sostenuto quello a cui la gente oggi aderisce.  Il nostro patrimonio di idee e di pensieri. Con qualche distinguo e qualche postilla, di non poco conto. Ecco, anche per questi motivi, nonostante le facili speculazioni politiche che si possono fare sul documento proposto da Lisola, mi piace aderire al Manifesto.

E’ vero può sembrare a prima vista il proclama per la costituzione di uno stato autonomo, in cui si fa tabula rasa di tutto, in cui si parte dalla convinzione che niente funziona. Forse qualcosa dobbiamo salvare, ma è anche vero che tra una burocrazia divenuta asfissiante, troppi amministratori poco interessati al bene della cosa pubblica, politici incapaci di governare e di progettare il futuro, è necessario creare un vasto movimento di opinione che faccia chiarezza e pulizia. 

Ma in fin dei conti cosa è in discussione. E’ in discussione la  gestione della cosa pubblica, ambiente e servizi. Sono in discussione coloro che gestiscono e amministrano la cosa pubblica.  E qui c’è tutto dai piani strutturali  al diritto alla salute inseriti nella semplicità e particolarità del microcosmo insulare.

Due parole sulle posizioni di Elba 2000 e sulla loro incidenza nell’opinione pubblica, in relazione alla questione degli appelli e dei manifesti. Ma sono davvero queste le cose che pensano gli elbani? Ma è giusto che solo gli elbani doc abbiano diritto di sottoscrivere appelli e manifesti per la salvezza dell’isola? Che solo i nativi (con qualche generazione alle spalle) abbiano diritto di parlare? Con alle spalle un paio di generazioni di minatori con le schiene spezzate nelle miniere di Rio, allora posso parlare: trovo profondamente ingiusta questa estremizzazione continua, questa assurda radicalizzazione tra bene e male.

A cosa serve estremizzare i concetti, rendendoli inverosimili e assurdi, se non a complicare le cose semplici a non trovare una soluzione vera sui problemi a ridicolizzare il dibattito sul futuro delle nostre isole. In discussione è la qualità della vita di chi vive su queste isole da sempre, da anni, da poco tempo, da adesso, di chi sceglie la dimensione dell’isola come dimensione di vita, per una breve vacanza o per tutta la vita. In questo manicheismo assurdo i problemi rimangono e non si risolveranno mai.  Succederà così su ogni questione: la divisione tra bene e male tra elbani e non (e questa è una distinzione difficilissima da fare al punto in cui siamo);  come successe con il Parco, polemiche inutili e pretestuose prima della sua istituzione.

Ecco, il Parco, oggi cosa rappresenta? E’ calzante l’immagine di una bicicletta, ora è ferma nessuno la pedala, e quando si trattava di farla andare si preferiva il surplace,  gli inutili equilibrismi a bordo pista piuttosto che tirare la volata verso i traguardi che il territorio e la gente attendono.

Infatti uno dei capitoli strategici del nostro romanzo “sul parco” è il rapporto con la gente, la sua percezione da parte dei cittadini, in rapporto alle loro aspirazioni e alle loro attese. Sono in gioco le scelte che riguardano la qualità della vita, scelte da sempre disattese dagli amministratori dei troppi comuni, dai politici di diverso colore, è su queste scelte che la gente attende al varco chiunque abbia la possibilità di decidere, poi giudica, indipendemente dal credo politico.

Una grande conquista, iniziata tanto tempo fa; alla fine degli anni 80, tante energie e risorse dedicate a un obiettivo sul quale ci siamo messi in gioco e che alla fine è stato raggiunto, grazie a noi e al coraggio di chi, in quel momento rappresentava le istituzioni (Ministero e Regione), nonostante le approssimazioni, gli errori e le trappole di altri. Altri che anch’essi,  sempre negli stessi anni, che rappresentavano le istituzioni (Comuni), e parte della società dalle associazioni di categoria agli ambientalisti.

Alla fine un obiettivo raggiunto, sul quale abbiamo iniziato lavorare con entusiasmo e grandi aspettative.  Cosa rimane oggi, dopo alcuni anni. Resta un’immagine del parco sbiadita dei cartelli che cadono a pezzi, restano le eco delle false e inutili contestazioni, resta l’incapacità politica di governare questo ente nell’inutile altalena di impossibili equilibrismi, nel quadro di giochi di potere, di commissari e consulenti ritagliati su misura in base a una perversa logica spartitoria e clientelare, resta l’incapacità della sinistra di porre soluzioni “vere”, realmente utili alla causa, resta l’entusiasmo degli inizi: l’entusiasmo di chi ha combattuto e vinto una battaglia di civiltà, restano immutate, ormai con una sorta di realismo disilluso, le grandi aspettative.

Poteva essere l’inizio di una nuova stagione per queste isole. Che emozione a rileggere le cronache o quel primo documento presentato dal sottoscritto alla seconda seduta del Consiglio Direttivo dell’Ente, ancora attualissimo carico di aspettative tutte disattese. Grandi aspettative e grandi intenti, tutti per ora miseramente falliti e perduti. Delusi, si forse è la parola giusta. I primi mesi, il primo anno di entusiasmo, almeno per me. Poi pian piano la disillusione. Niente di concreto per il fabbisogno materiale e morale di queste isole, niente di concreto sul territorio. 

Il consenso: si dirà che, comunque, rispetto ai primi mesi è aumentato. E’ vero, ma questo tipo di consenso serve a poco.  Per un area protetta si ottiene, per assurdo, anche se non si fa niente, così la gente capisce che la castagne si possono ancora raccogliere, che il parco può servire per richiamare i turisti, che il nome in qualche modo attira e può essere l’alibi per tante cose, magari arriva qualche soldo. Ma sul territorio niente. Per il tessuto socio-economico niente.

Si perdono ancora pezzi di terra importanti. Si perdono occasioni (ad esempio sull’agricoltura e sulla pesca) per fare e dimostrare. Si costruisce ancora in ambienti strategici. Un esempio divenuto per molti fastidioso, ma perfettamente calzante: le dune di Lacona; proprio con la presenza del parco si è costruito quello che per anni si era riusciti a bloccare. E poi nuovi piani strutturali. Cosa dice, cosa ha detto il parco? Poco finora, schiacciato dai mille vincoli e dalle mille pressioni nei quali si era infilato. Eppure proprio dietro i piani strutturali si nasconde una prossima decisiva partita. Al di la delle facili demagogie e strumentalizzazioni per la prima casa. Nel passato elemento di scambio elettorale: prima che diviene seconda e terza per cui ancora oggi immobili nati come prima casa, vengono affittati come case per vacanze. Per il futuro la prima casa non può e non deve essere questo. E nemmeno casa di figli di papà che hanno altre cospicue risorse immobiliari e riescono a giustificare la prima casa che poi diviene, come nell’altro caso, seconda e terza e comunque proprietà delle famiglie patrizie dell’isola. Oppure prima casa a Portoferraio, a Porto Azzurro a Rio, e così via in ogni comune dell’isola. E anche per la prima casa esiste un limite, fisico, del territorio.  Non si possono calibrare i piani alle esigenze e alle aspettative (legittime) della prima casa. Esiste anche un ricambio naturale della popolazione, esistono le grandi opportunità delle ristrutturazioni …esiste un limite e prima o poi ci si dovrà fermare. Abbiamo quasi 20.000 seconde case; il patrimonio edilizio avrà davvero un punto di crescita zero, anche se su questo termine si fanno facile demagogie; ma a quel punto niente rimarrà della natura e saranno venuti meno i motivi per cui si viene in vacanza su quest’isola.

Sul resto del territorio non edificato, soprattutto sulle aree agricole superstiti si gioca una battaglia decisiva. Non a caso le aree agricole e le pianure costiere sono state escluse dai perimetri del parco. Anche se questo, almeno fino ad oggi, rappresenta solo un simbolo senza contenuti, sempre meglio che stiano fuori, potrebbe, chissà per quale malaugurata coincidenza, essere nominato presidente un vero ambientalista che sa quello che si deve fare … Isole come dice Gin Racheli, come progetto sperimentale di sviluppo, della qualità delle vita per le comunità locali. Territori piccoli dove è facile sperimentare. Quindi le ristrutturazioni edilizie, il recupero del patrimonio con tecniche di bioarchitettura, progetti per risorse energetiche a basso impatto ambientale (eolico e solare), ma soprattutto progetti per la conservazione della natura.

Emblematico è il caso del cinghiale. Non si è voluto ancora affrontare e risolvere alla radice. Il controllo vero si sarebbe potuto ottenere, ad esempio, attraverso cooperative faunistiche di gestione con un progetto di previsione sui prelievi ma soprattutto con la fase di trasformazione dei capi abbattuti: una risorsa alimentare biologica con il marchio del parco e con ottime ricadute occupazionali. Il numero si sarebbe tenuto sotto controllo e al tempo stesso si sarebbero create opportunità di lavoro in un settore economico interessante. Questa poteva essere una soluzione: questa non interessa? Allora si deve percorrere la strada della eradicazione seria e vera. Ma nemmeno questa si è voluta percorrere.

Come può un’area protetta non occuparsi, non dire la sua, non indirizzare, non governare dall’alto della sostenibilità ambientale la gestione dei rifiuti (scandalosa finora all’Elba), la gestione delle acque? Incredibile che un parco nazionale non intervenga attivamente da subito su questi temi. Il problema non può essere rappresentato dai confini o dal perimetro:  queste sono solo evidenti scuse.

Altro esempio: Pianosa. In stato di scandaloso abbandono, soggetta agli appetiti più pericolosi, fa pericolosamente parte del patrimonio demaniale che può essere messo in vendita dalla Stato ai privati. Nonostante i numerosi convegni e i fiumi di parole sprecate, manca ancora un serio progetto di utilizzo dell’isola, straordinario scrigno di natura e cultura. Perché il parco non è intervenuto (come nel caso dell’Asinara) per sottrarla a sciocchi modi di fruizione pensati dai comuni, modi di utilizzo dell’isola che nella prospettiva futura non servono a niente per progettare davvero il futuro sostenibile su questo straordinario scoglio.

Termino con alcune riflessioni su quella terra alla quale sono legato con l’indistrubbile filo della memoria. Terra che rappresenta un opportunità per dimostrare come potremmo progettare il nostro futuro.

Il patrimonio della terra. Lo straordinario ambiente delle zone minerarie. L’abbandono e il completo deserto progettuale. Le miniere e il folkoristico utilizzo di un patrimonio culturale e scientifico di livello mondiale, che ha pochissimi riscontri in termini di biodiversità e ricchezza scientifica del pianeta.  Ridotto ad anfiteatri inutili e a villaggi paese impossibili.

Qui ci si scaglia contro l’opzione zero, e cosi facendo si innesta nel dibattito in una logica perversa. L’Elba: un’isola a tante velocità, così noi ad oriente, popolo penalizzato dalla presenza delle attività minerarie, vogliamo recuperare il gap col mondo turistico che promette quattrini e benessere e vogliamo costruire, riempire quel povero territorio scavato per millenni ed edificare ville, residence, appartamenti, villaggi paese (che termine assurdo). Vogliamo recuperare quel gap che è anche di inferiorità culturale di subalternità politica.

Prostituiremo la nostra terra ai modelli turistici che da tempo stanno presentando i lori evidenti limiti. Ma è proprio questa la straordinaria ricchezza e potenzialità che abbiamo: quella di non essere uguali al modello balneare di Marina di Campo,  con uno sviluppo ancora da programmare; ma forse ormai, è già troppo tardi? Non sto parlando dell’opzione zero, qui si tratta di recuperare il patrimonio storico, culturale edilizio per dimostrare come può essere uno sviluppo sostenibile. 

Invece si parla del villaggio paese e di altre oscenità assicurando la morte completa, l’oblio a quegli impianti, eccezionale esempio di archeologia industriale che in altre parte d’Italia e d’Europa attirano visitatori da tutto il mondo, che hanno visto il sudore e la morte di intere generazioni di minatori. Tanto ormai non interessa a nessuno. E l’errore e l’orrore stanno proprio qui.

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