Isola d’Elba. Alluvioni. Novembre 1994

Isola d’Elba. Alluvioni. Novembre 1994

Le frane, i crolli,  lo straripamento  dei fiume e dei torrenti, le catatastrofi, ormai nel nostro paese non sono eventi eccezionali, ma appuntamenti obbligati del “prossimo acquazzone”.  Di fronte alle tragedie come non pensare ad una sciagurata gestione del territorio, come non pensare all’edificazione diffusa in zone fragilissime, come non pensare, nel nostro piccolo, al centro polifunzionale di Pomonte, costato quasi un miliardi di denaro pubblico e costruito, anche secondo i pareri dei preposti al vincolo idrogeoligico in una zona a rischio. A Pomonte è piovuto, il torrente non ha portato distruzione e morte, ma crediamo, tanta amarezza. Come si costruisce, senza il minimo rispetto per le elementari regole di ingegneria, a Pomonte, così si è costruito nel resto del nostro paese, ai primi posti nella classifica mondiale dei produttori di cemento (al quarto per esattezza, con 39708 migliaia di tonnellate nel 1989, dopo l’ex-Urss, gli Stati Uniti e il Giappone), ma anche ai primi posti per la fragilità del territorio dal punto di vista dell’assetto idrogeologico.

Così nella nostra isola, come nel resto del paese, si sono cementificati i fossi favorendo lo scorrimento delle acque superficiali e il pericolo di inondazioni e frane. Ma più spesso si è costruito nelle valli e al limite dei torrenti: così ci si lamenta se la Valle di Riale, ogni tanto si trascina fino al mare decine di automobili, se la spiagge di Marina di Campo e di Cavoli stanno scomparendo: andate a vedere in che stato sono i fossi e i ruscelli che garantivano il ripascimento dei litorali.

Strano paese il nostro: i servizi tecnici sulla vigilanza e sulla programmazione del territorio non esistono, e nel caso ci siano non sono funzionanti (in altri paesi europei la proprorzione tra abitanti e tecnici specializzati al servizio dello stato risponde invece alle esigenze dell’ambiente); la politica fiscale viene spesso perseguita attraverso lo strumento del condono: la sanatoria edilizia, specie in zone fragili si rivela come una sorta di flagello biblico; le leggi esistinti, dopo decenni dall’emanazione, dopo migliaia di emendamenti, proroghe, ancora non vengono applicate, e quando sarebbe possibile, i governi innalzano “la soglia di rischio”, è successo recentemente con la legge Merli, è successo con le sostanze chimiche e i pesticidi, come se la salute dei cittadini fosse direttamente collegata con i decreti legge e le circolari ministeriali; strano paese perchè la spesa pubblica per il risanamento ambientale e il ripristino territoriale ammonta, mediamente negli ultimi anni, a circa 700 miliardi annui, ma le nuove autostrade ci sono costate, mediamente, 50 miliardi a chilometro. Poi ci si stupiosce delle catastrofi.

In questi giorni, Antonio Cederna ha pubblicato i suoi amareggiati commenti su molti quotidiani, ha ripetuto, senza più speranza, le cose che va dicendo da quasi trent’anni: “… ai boom edilizi, autostradali, industriali, attuati al di fuori di qualunque indirizzo di programmazione… l’Italia ha risposto sfasciandosi… abbandono della campagna e della montagna, sgangherato sviluppo urbanisitco fondato sulla speculazione, insediamenti edilizi creati nelle piane alluvionali, restringimento dell’alveo dei fiumi, prosciugamento della paludi, disboscamento e insufficiente rimboschimento. Abbiamo inciso, sventrato, perforato, asportato, colmato, occluso, manomesso per ogni verso l’ambiente naturale e il territorio, senza nemmeno preoccuparci di conoscerlo: non meravigliamoci del duro prezzo che dobbiamo pagare per tante manifestazioni di violento rigetto.”

La nostra speranza è di aver toccato il fondo, per provare a risalire, con idee nuove e uomini nuovi.

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