Quei paesi. Isola d’Elba, 3 novembre 2009
Quei paesi, ad oriente, sprofondati nei colori forti della terra, segnati dalla frenetica e millenaria attività industriale: dai primi cercatori di metalli ai moderni collezionisti di pezzi rari; quei paesi ora sono lì immobili e pensierosi a chiedersi come sarà il loro futuro. Troppe occasioni sprecate, sapienze antiche e saggezza popolare sono state sopraffatte da quel tarlo che ha perforato menti e coscienze, dell’espansione, dello sviluppo, del denaro.
Quei paesi ora sono sconfitti, aspettano altre occasioni, ma ormai hanno assistito al triste spettacolo della dimenticanza. Una grande tradizione di solidarietà, di sostegno reciproco e di fratellanza, dalle società di mutuo soccorso di tradizione cattolica alle organizzazioni sindacali di matrice socialista. Ma sono passate anche queste, con il loro ricordo. Sono dimenticati anche i consigli e gli insegnamenti dei vecchi minatori, degli anziani e rugosi pescatori, degli abbronzati capitani di tutti i mari.
Ho avuto la fortuna di viverlo e di assaporarlo, giusto in tempo prima che scomparisse, quell’antico mondo di lavoro, di amicizia e di amore. Ho sentito il respiro del mare la sera, delle barche al mattino che solcavano le acque, della piazzette che parlavano con la voce dei vecchi, raccontando storie affascinanti. Li rivedo i volti di quegli uomini forti, degli anziani così tranquilli e saggi, ascolto il rumore delle loro parole e mi immergo nel profumo della salsedine e della miniera.
La miniera del paese di Rio, della piaggia (quella grande distesa di minerale), era tante miniere, decine di cantieri e di cave a cielo aperto: una incessante attività di estrazione e di trasporto del ferro custodito nei cristalli della pirite e dell’ematite. Un movimento continuo e millenario che aveva segnato il nostro territorio, spiagge nere dai cristalli di ematite, strade luccicanti e case dagli intonaci che brillavano al sole. Poi c’era la laveria, quella di Vigneria. A quella sono legato dal ricordo delle faticose e svogliate camminate che facevo per arrivare, in estate, a consegnare il pranzo a mio padre, minatore. Ma poi la ricompensa, un tesoro nascosto nelle officine, nei silos, negli ingranaggi di macchine che allora erano perfette. Il rumore degli impianti di frammentazione, l’odore del minerale poi sottoposto al lavaggio, e lo spettacolo ammaliante di quella parte che poi veniva avviata alla caricazione, attraverso il Ponte, oggi scomparso, straordinaria opera di ingegneria locale. Ma il ricordo è vivo soprattutto per l’accoglienza dei minatori, forti sono ancora gli odori che aiutano a ricostruire quei luoghi che ora non ci sono più, scomparsi sotto i colpi dell’incuria, dell’abbandono, dell’approssimazione e di una colpevole ignoranza.
Le nostre miniere. E’ vero. Forse, non le abbiamo mai amate tanto. Anche coloro che di esse hanno vissuto tutta la vita non le hanno amate. Però, sicuramente avevano un rapporto di rispetto con quelle valli di pietra e di fango. Quel lavoro era così, difficile e spesso, specie negli anni più lontani, faticoso e massacrante. Non ho fatto in tempo a parlare di queste cose col “mi babbo”, mi ha lasciato troppo presto, e sicuramente mi sarebbe stato utile conoscere dalla sua voce, cosa pensava sulla miniera di Rio che “bruciava, bruciava da secoli e ce ne sarebbero voluti altrettanti per spegnerla”. Col “mi nonno” ho avuto anche meno tempo per parlarne, dato che era di quelli che preferivano l’acquavite al prete, e così quell’abitudine di bisboccia presa per dimenticare le ore del faticoso lavoro in cava se l’è portata dietro fino alla fine, lasciando pochissimo tempo alle discussioni un po’ più difficili. In quegli anni, quasi l’ultimo decennio prima della definitiva chiusura, si respirava ancora, nei paesi del ferro, oltre alla polvere di pirite e di ematite, quell’aria di comunità sana, che faceva quadrato verso l’esterno, che difendeva i suoi luoghi e le sue cose, di cui anche la miniera faceva parte. Tutti, coloro che ci lavoravano, prima di altri, sapevano che le miniere si sarebbero spente, non dovevano ancora passare migliaia di anni, solo pochi decenni e poi il fuoco acceso dai fabbri etruschi si sarebbe spento. Molti conoscevano il grande valore di quelle terre, ma stentavano a capire come tutto si sarebbe di nuovo trasformato in lavoro.
Quel paese, quei paesi non ci sono più. Non vi sono più gli uomini, le miniere, i minerali, gli attrezzi, il picchio, la mazzetta, la marra, lo zappone, le ferrovie decauville, le locomotive, i vagoni a bilico tipo, le locomotive Orenstein-Koppel, non c’è più niente di tutto questo ma solo, in rare occasioni, qualche banchetto fieristico con minerali elbani. Gli impianti, le officine, le macchine non sono stati preservati dal decadimento, dal degrado e dalla scomparsa. Ricordo ancora le parole di Alberto Riparbelli. “Osserviamo come l’isola d’Elba sia per l’archeologia industriale una campo di studio eccezionale. Quindi è della massima importanza ed urgenza preservare dal degrado e dalla distruzione i superstiti monumenti industriali. Perciò occorre eseguire un censimento completo … così si potrà concretizzare col restauro e il riuso un ampio Museo del Ferro all’aperto che risulterebbe senz’altro il più importante del mondo”.
Abbiamo davvero perso tutte le occasioni, non sarà davvero più possibile invertire una tendenza che porta alla distruzione del nostro territorio e della nostra cultura? E’ domanda, non so ancora quanto attuale, ma che rischia di avere troppe risposte scontate.