Rio, Rivus

Rio, Rivus

Si diceva sempre vado a Rio Alto. Rio Elba veniva usato molto raramente, poi con gli anni anche i più giovani comunque lo usavano. Rio Castello, mai sentito da nessuno. Da Rio Alto, la sorgente più copiosa che alimentava tutta la Valle era la Fonte dei Canali (la valle dei Mulini, San Giuseppe, il Piano, Le Giudimente, Le Venelle, l’Ammazzatoi e la Valle di Riale). La Fonte e i luoghi circostanti erano così raccontanti da Sebastiano Lambardi (studioso e storico locale), nel volume Memorie antiche e moderne dell’Isola d’Elba (Firenze, 1791): “… Nel mezzo dell’Isola distante al quanto, e sotto al Castello di Rio vi è una Fontana detta i Canali così abbondante d’Acque, che sa macinare fino a diciotto Mulini prima disboccare in Mare sulla Spiaggia di Rio, ed è di così fatta natura, che cresce, e cala, secondo mancano, o crescono i giorni, onde nel Solestizio di Estate quando i giorni sono più lunghi, scaturisce in tanta copia, che pare un Lago. Ma nel Solestizio

dell’Inverno scema molto, che rende per metà di quello che fà l’Estate, e questo credesi

accadere dagli umori, che l’Inverno si riconcentrano nella Terra. Tale Fontana però non è nel mezzo dell’Isola come alcuni Autori hanno scritto, ma piuttosto nella terza parte di essa, e quella che è posta a Tramontana verso il Continente di Populonia …”.

Poi, per la curiosità e l’interesse per la mia terra, scopro che Rio viene da rivus, che sta per corso d’acqua, e così quella che per noi era un luogo mitico di giochi e di azzardi, “la valle”, sarà, correttamente e troppo pomposamente, forse, “la valle di Riale”. Per la  “valle”, luogo trascurato, poco frequentato,  ma ricco di pericoli e ammalianti segreti, si andava raramente, era però luogo agognato e desiderato per le scoperte che vi si potevano fare.

Io lo conoscevo bene, l’orto, il nostro orto, quello di Luigi Giannoni e di Nuriella, era lì. Comincia a comprendere perché, rivus, stava ad indicare un posto ricco di acque; conobbi il grande lavatoio, vicino alla chiesa di Dommario, vittima dell’ignoranza distruttrice degli uomini.  Le vasche piene di acqua chiara e fresca, e poi gli orti, quello straordinario reticolo di giardini (di cui il nostro era uno) mura e di bottacci che alimentavano le coltivazione dei contadini-minatori e che terminavano con quello più grande e più curato, quello del Segnini (mamma diceva sempre “guarda com’è preciso!”).  

Poi sul nostro orto incombeva la sagoma amichevole dell’Officina; da qui si scandivano le ore del lavoro e lì dentro c’era il cuore pulsante della miniera, da qui uscivano i mezzi, camion e motopale  e le creazioni industriali che servivano per cavare il ferro dai monti di Rio. Anche dell’officina, non resta più niente, solo il ricordo, fino a quando sarà in grado di sopravvivere. E qualcuno forse potrà scriverne la storia, per conservarlo.

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