Sostenibile
Oggi è diventato un mantra. Sostenibile è l’aggettivo che serve a sostenere tutto il nostro universo pensante. Lo sviluppo (anche se un po’ fuori moda), le emissioni inquinanti, una qualsiasi idea di futuro, un patto tra alleati, un progetto urbano. Cose, azioni e dimensioni che non sarebbero per loro intrinseca valenza, sostenibili senza l’aggettivo che le sostiene.
Ma partiamo dalla matrice, da quella prima definizione: sviluppo sostenibile. Ormai la troviamo anche nella Treccani: “per sviluppo sostenibile si intende uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”.
Il concetto di sostenibilità, in questa accezione, viene collegato alla compatibilità tra sviluppo delle attività economiche e salvaguardia dell’ambiente. La possibilità di assicurare la soddisfazione dei bisogni essenziali comporta, dunque, la realizzazione di uno sviluppo economico che abbia come finalità principale il rispetto dell’ambiente, ma che allo stesso tempo veda anche i paesi più ricchi adottare processi produttivi e stili di vita compatibili con la capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attività umane e i paesi in via di sviluppo crescere in termini demografici ed economici a ritmi compatibili con l’ecosistema.
Sviluppo sostenibile? Mi chiedo e rifletto, ma qualcuno, in buona fede ci ha davvero creduto?
E’ forse sostenibile questo nostro mondo, sono sostenibili (solo per fare un semplice e banale esempio) i prodotti e le strategie globali deì padroni della rete da Google ad Amazon. Cosa lo è e cosa non lo è? E’ sostenibile il format obsoleto di un altro mantra, quello del plastic free?
Forse è tutto ciò che è legato alla specie umana è insostenibile.
Gro Harlem Brundtland, (dal 1981 primo ministro del governo norvegese e fino al 1996 guidò il governo in tre riprese per quasi 10 anni) fu presidente della Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo (World Commission on Environment and Development, WCED,) istituita nel 1983, introdusse, nel rapporto «Our common future», l’idea del «sustainable development», con un’impostazione sostanzialmente recepita nel 1989 dall’Assemblea generale dell’ONU.
A quel tempo era necessaria una strategia che consentisse agli stati di trovare una via d’uscita dal preoccupante impatto umano sul pianeta. Il Rapporto elaborato dalla commissione evidenziò come la maggior parte dei problemi ambientali derivavano livello mondiale in particolare, da una parte l’altissimo tasso di povertà dei paesi del Sud del Mondo ancora non industrializzati e, dall’altra, la tipologia del modello di produzione consumistico su cui i Paesi industrializzati avevano impostato le loro economie.
Lo sviluppo può essere sostenibile? Ma come può esserlo? Il termine sviluppo comprende implicitamente un movimento progressivo che indica espansione, crescita continua e inarrestabile. Quindi l’ossimoro resta e i due concetti restano distanti e antitetici. Come le convergenze parallele. Anche se in politica tutto è (ancora) possibile.
Da qui, per molti, l’esigenza di cambiare paradigma, e arriva per la nostra elaborazione intellettuale il concetto di decrescita (che con altre elaborazioni di pensiero successive diviene felice) con Serge Latouche. Il filosofo francese sostiene che per evitare il collasso del pianeta non è sufficiente risanare l’economia e rispettare la natura: è necessario introdurre maggior cooperazione e altruismo nei rapporti umani. Forse anche questo è un ossimoro.
Ossimoro, per la verità sostenuto già da Alain de Benoiste e da Serge Latouche (appunto) e anche dal filosofo francese Edward Goldsmith (considerato uno dei maggiori teorici del pensiero ecologista contemporaneo), in The Earth Report, nell’ambito della teoria della decrescita.
Per certi aspetti l’idea di sviluppo sostenibile sembra rievocare echi hegeliani, nel richiamo dei “pilastri” fondamentali della dialettica: contraddizione e sviluppo, storia orientata verso un fine lontano, sacrificio del presente in favore del futuro.
In un recente lavoro, un’altra proposta da parte di Emilia Blanchetti, Elena Comelli (in Tocca a noi, Siamo stati il problema, possiamo essere la soluzione, Edizioni Ambiente, 2020, forse peccando un pò di ottimismo). Le due autrici osservano condivisibilmente che al posto del concetto di “sviluppo sostenibile” occorrerebbe parlare di “equilibrio”, poiché quella di “sviluppo sostenibile” è una “definizione che ha fatto il suo tempo e che porta in sé tutta l’ambiguità in cui ci siamo cullati negli ultimi decenni”, e che certamente non può continuare a essere inteso nel senso praticato finora, come “crescita a tutti i costi, fatturato, PIL, remunerazione, ricchezza”.
E quindi? Dall’ossimoro non se ne esce. E’ necessario trovare risposte e soluzioni al decadimento culturale e ambientale di tutto il sistema. Come fare? Con uno sguardo al passato, per capire come è successo tutto ciò, e farne davvero tesoro. E poi cambiare davvero il paradigma, anche se non sarà certamente facile. Magari provarci davvero, mutuando la semplice e rivoluzionaria idea-azione di alcuni che hanno osato.