Il futuro di noi tutti. Oltre i limiti dello sviluppo

Il futuro di noi tutti. Oltre i limiti dello sviluppo

Ero al mio primo esame di Geografia, seguii il corso e tra i testi da preparare c’era anche il primo rapporto del  Worldwatch Institute, State of The World 1984. Era il modo per completare la mia passione, ma soprattutto per acquisire nozioni e informazioni attendibili e oggettive che riguardavano la mia ritrovata anima ambientalista.

Il Worldwatch Institute, il primo istituto dedicato all’analisi delle questioni ambientali mondiali, è stato fondato nel 1974, con il sostegno della Fondazione Rockefeller, da Lester Brown, divulgatore e ambientalista statunitense. Attraverso la ricerca e la divulgazione l’istituto, grazie alla collaborazione di numerosi scienziati, lavora per accelerare la transizione verso un mondo sostenibile che soddisfi i bisogni umani. Le questioni ambientali, purtroppo si sono moltiplicate e tutte sono, oggi, prioritarie:

  • costruire un Low-Carbon Energy System che riduca drasticamente l’utilizzo di combustibili fossili e le emissioni di gas a effetto serra;
  • nutrire il Pianeta, attraverso un sistema di produzione alimentare sostenibile che fornisca una dieta sana e nutriente per tutti sostendendo la terra, l’acqua e le risorse biologiche da cui dipende la vita.
  • trasformare economie, culture e società in modo che soddisfino i bisogni umani, promuovendo la prosperità,, in armonia con la natura.

Dal 1984 il Worldwatch Institute pubblica (a beneficio delle istituzioni, dei politici e di tutti i cittadini del mondo) State of the World, appunto, un rapporto annuale sulle questioni ambientali che ci riguardano. Quindi sono ormai 37 anni, che abbiamo contezza della gravità della questione ambientale e di quanto questa sia collegata alla futura esistenza del genere umano sul pianeta.

A dire il vero sono più di 37 anni, già nel 1972, quindi 49 anni fa il MIT (Massachusetts Institute of Technology), una delle più importanti università di ricerca del mondo con sede a Cambridge, nel Massachusetts, commissionò al Club di Roma (associazione non governativa, non-profit, di scienziati, economisti, uomini e donne d’affari, attivisti dei diritti civili, alti dirigenti pubblici internazionali e capi di Stato di tutti e cinque i continenti) uno studio, che poi divenne una importante pubblicazione dal titolo Rapporto sui limiti dello sviluppo pubblicato nel 1972 da Donella Meadows, Dennis Meadows, Jørgen Randers e William W. Behrens.  

Il rapporto, basato sulla simulazione al computer World3, predice le conseguenze della continua crescita della popolazione sull’ecosistema terrestre e sulla stessa sopravvivenza della specie umana. Riassumendo, molto sinteticamente, le conclusioni del rapporto sono:

  • se il tasso di crescita (quello del 1972!) della popolazione, dell’industrializzazione, dell’inquinamento, della produzione di cibo e dello sfruttamento delle risorse continuerà inalterato, i limiti dello sviluppo su questo pianeta saranno raggiunti in un momento imprecisato entro i prossimi cento anni.
  • Il risultato più probabile sarà un declino improvviso ed incontrollabile della popolazione e della capacità industriale.
  • È però possibile modificare i tassi di sviluppo e giungere ad una condizione di stabilità ecologica ed economica, sostenibile anche nel lontano futuro.

Ovviamente le condizioni oggi sono radicalmente cambiate e il tasso di crescita di tutti parametri sono saltati per cui, il punto di non ritorno è già stato abbondantemente superato.

Infatti nel 1992 è stato pubblicato un primo aggiornamento del Rapporto, col titolo Beyond the Limits (oltre i limiti), nel quale si sosteneva che erano già stati superati i limiti della “capacità di carico” del pianeta.

Un secondo aggiornamento, dal titolo Limits to Growth: The 30-Year Update è stato pubblicato il 1º giugno 2004 dalla Chelsea Green Publishing Company. In questa versione, gli stessi autori, hanno aggiornato e integrato la versione originale, spostando l’accento dall’esaurimento delle risorse alla degradazione dell’ambiente.

Nel 2008 Graham Turner, del Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation (CSIRO) Australiano, ha pubblicato una ricerca intitolata Un paragone tra I limiti dello sviluppo e 30 anni di dati reali, in cui ha confrontato i dati degli ultimi 30 anni con le previsioni effettuate nel 1972, concludendo che i mutamenti nella produzione industriale e agricola, nella popolazione e nell’inquinamento effettivamente avvenuti sono coerenti con le previsioni del 1972 di un collasso ambientale ed economico nel XXI secolo.

Ma vediamo oggi come siamo messi, o meglio, fermiamoci ad otto anni fa.

Otto anni fa, infatti, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), l’ente delle Nazioni Unite che studia il riscaldamento del pianeta, nel suo quinto rapporto lanciava soprattutto moniti.

L’accordo di Parigi del 2015 aveva fissato la linea rossa da non superare in 1,5-2 gradi di aumento rispetto all’epoca preindustriale. Oltre questo limite, secondo quanto pubblicato dall’Ipcc le condizioni ambientali cambieranno al di là della capacità di adattamento di molte specie.

Ma già a giugno 2021, ultimo mese di cui abbiamo disponibili le misurazioni ufficiali, siamo già a 1,4° di aumento sulla terraferma, (dati forniti da Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration), con un decennio di anticipo sulle previsioni.

Oggi. Secondo il rapporto uscito il 9 agosto 2021 (rapporto di cui esce solo il primo capitolo, gli altri sono previsti nei prossimi mesi), nel 2030 potremmo arrivare a 3 gradi e nel 2.100 fino a 4.

Al testo del rapporto hanno lavorato 234 scienziati di 195 paesi, analizzando 40mila articoli scientifici. La parola chiave del rapporto è tipping point: punto di non ritorno.

Questo lo scenario (ripeto, ampiamente già previsto in maniera scientifica ed oggettiva da schiere di scienziati), Se l’anidride carbonica salirà troppo e la temperatura del pianeta supererà di 1,5° la media degli ultimi 150 anni, non ci saranno meccanismi efficienti per riportarla nella norma. Se i ghiacci dei poli si fonderanno oltre un certo limite, sarà impossibile che ritornino allo stato solido come facevano prima. Se roghi e siccità continueranno a erodere la foresta amazzonica, difficilmente la vedremo ricrescere nell’arco di una vita umana. Laddove si creerà un deserto, non rifioriranno più prati o boschi. E se una specie si estinguerà, nessuno potrà più resuscitarla. Ci estingueremo? Forse si o forse no, ma le cose non saranno mai più le stesse

La vita sulla Terra, secondo quanto si legge nel rapporto, saprà riprendersi da un cambiamento climatico drammatico facendo evolvere nuove specie e creando nuovi ecosistemi. Per la specie umana però le conseguenze saranno irreversibili.

La cura? Basta rileggersi o tenere memoria di quanto divulgato ampiamente e per tempo dal Club di Roma o dal Wolrdwatch Insitutite, ma i politici hanno la memoria corta.

La cura? Alcuni interventi imprescindibili, di cui si parla da decenni: passare ad auto elettriche, piantare alberi, rendere più equa la ripartizione delle risorse e della ricchezza sul pianeta,  ridurre la carne nella dieta a favore dei vegetali, riabbassando un livello di anidride carbonica che mai è stato così alto negli ultimi 800mila anni.

La cura: riportare il termometro in equilibrio dimezzando le emissioni di gas serra entro il 2030 e portarle a uno zero netto entro il 2050. Siamo fuori tempo massimo? Forse, certo è che, sicuramente,  non possiamo più aspettare.

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